di Piero Montana
Tra gli artisti bagheresi Mario Liga è il solo, oggi, che può rivendicare un legame privilegiato con la nostra migliore tradizione pittorica, che ha i suoi punti di riferimento nel maestro Renato Guttuso e nella pittura del carretto di Murdolo e dei Ducato.
L’opera pittorica, di cui qui veniamo ad occuparci, è dunque quella di un artista assai singolare, che qui proponiamo all’attenzione per le molteplici suggestioni che soprattutto il colore dei suoi quadri, come fonte energetica di linfa vitale, riesce immediatamente a trasmetterci.
Un colore che quasi sempre trae la sua luce dal profondo, veicolandola dal basso verso l’alto, come fosse per l’appunto cristallizzata nelle viscere di una terra, a cui l’artista ha sempre sentito di appartenere, di essere irrimediabilmente legato, in una sorta di cordone ombelicale, da un sentimento struggente.
Intendiamoci. La pittura di Liga, sempre assai calibrata, in un rigore quasi geometrico, tra astrazione e figurazione, nei suoi esiti migliori, nulla ha a che fare con il neorealismo di matrice guttusiana, non è ancora, pertanto, per nulla paesaggistica, nel senso che attribuiamo al ” verismo” ed alle vedute del paesaggio nella pittura dell’800, al contrario essa è una pittura assai moderna, che nel “materismo” dell’informale trova le sue soluzioni più felici. Ma questo materismo di Liga non ci entusiasmerebbe poi tanto, se dentro la materia ed il suo particolare impasto di colore, non scorgessimo tracce di sangue : quello dello stesso artista.
Da qui si spiega la malia di certi suoi paesaggi astratti, dove le profonde radici, i legami, meglio i legamenti che ci riportano alla terra, vanno intesi come fatture e dichiarazioni d’amore.
La magia delle opere di Liga nasce dunque in profondità dall’uso di un colore che non è mai quello spremuto direttamente da tubetti già confezionati, bensì ottenuto col sudore della fronte, in una sorta di laboratorio alchemico, nell’impasto “travagliato”, segreto, personale, che in se stesso è già opera di trasmutazione, in quanto nel suo farsi grumo di materia, polvere o terra impastata al sudore dell’uomo, diventa per noi essenzialmente corpo eucaristico, ossia carne e sangue dell’ artista, che dal fango e dalle sue stesse deiezioni trae alimento, ispirazione, forza, energia creatrice.
La pittura di Liga, che va molto al di là della lezione dei pittori di carretto e del suo stesso maestro, Renato Guttuso, questa pittura, che con lo slancio assoluto dell’intuizione poetica stravolge la concezione di un piatto e banale realismo figurativo, legando o innalzando nei dipinti dei suoi paesaggi astratti le terre al cielo senza mai precisarne all’orizzonte una linea di confine o demarcazione, questa pittura, dicevamo, non ha mai fatto dimenticare all’artista le sue radici, nel pervenire, tuttavia, felicemente a sorprendenti, inattendibili risultati di astrazione pittorica. E tuttavia la definizione di realismo astratto, con la quale tentiamo di accostarci all’opera di Liga, non è sufficiente ad illuminarne sia pure intuitivamente gli aspetti più profondi, se non teniamo in debito conto anche quella sorta di rivoluzione del linguaggio formale e sostanziale, che al nostro maestro è più congeniale, e che semplicemente consiste in una sorta di contaminazione di realismo figurativo ed astrazione, di tradizione ed avanguardia, di contaminazione insomma di parti assai eterogenee del mondo, quali la dimensione dell’alto e del basso, del cielo e della terra, dello spirito e della materia.
La profondità dei paesaggi di alcune contrade della campagna bagherese, quali Ballacera o il Corvo, ha nelle opere di Liga il solo riscontro possibile nello spessore della materia, del colore inteso essenzialmente come terra, da cui l’artista continua a trarre nutrimento, energia per volare molto in alto e giungere a mistiche visioni aeree di interiori paesaggi dell’anima, a volte del tutto rarefatti, nella purezza assoluta, che assai recentemente è approdata ad un bianco immacolato ed abbacinante di muri sgretolati di case isolane, quasi impregnati di salsedine e perennemente immersi, bagnati da una calda luce solare.
Un sentimento di profondo radicamento alla terra d’appartenenza viene dunque espresso nei quadri di Liga, dove anzitutto l’elemento costitutivo e fondamentale, al di là dei dati puramente descrittivi e paesaggistici, viene colto d’acchito dal nostro sguardo, proprio in quello spessore, in quell’accumulo, in quelle sedimentazioni, incrostazioni del colore, che li caratterizzano.
Qui è il muro o la zolla di terra che racchiude in se stessa un potente richiamo d’attrazione.
Al di là del principio del piacere e della felicità, è possibile percepire attraverso le opere di Liga il richiamo segreto e malioso di Thanatos. Non a caso infatti il pittore ama mescolare ai grigi della sua tavolozza le ceneri fredde dei tronchi d’alberi bruciati, alla densità del puro colore l’impurità delle scorie, la polvere della dissoluzione, della morte.
In questa profonda alchimia, dove le ceneri, la sabbia, il cemento, il sudore della fronte vengono impastati coi colori dei tubetti, e dove dunque è in giuoco la creazione “della carne”, della materia pittorica, è possibile allora individuare il segreto di un mestiere , di un’arte.
L’impatto anzitutto con le opere di questo artista bagherese è prodotto da questa fisiologia del colore. Il cromatismo nelle opere di Liga non è che il risultato della solidificazione del colore nel suo impasto, nel suo spessore, nel suo farsi terra, cosa, realtà, ma anche nel suo farsi pelle, involucro del suo sangue e della sua carne.
Non pertanto la descrizione naturalistica o verista del paesaggio, ma questo farsi elemento del colore, ossia terra, acqua, aria, fuoco, colpisce nell’osservazione delle opere di Liga la sensibilità di noi moderni spettatori.
Ecco perché alla definizione di realismo astratto, parlando dei quadri del nostro pittore bagherese, preferiamo più correttamente quella di realismo materico, magico ed alchemico.
La materia infatti come terra , come paesaggio inorganico, come natura morta nelle tele di Liga non occupa tutto lo spazio, lasciando sempre in alto sulla linea dell’orizzonte, come uno spiraglio, una speranza di mistica levitazione, una sottile striscia di cielo.
La terra poi delle contrade dipinte dall’artista bagherese, anche quando ci appare nuda, bruciata, arida, ” vacante”, è tuttavia sostanzialmente fertile, produttiva in questo anelito dell’artista all’innalzamento, alla elevazione dell’anima, alla purificazione attraverso la speranza visionaria dell’utopia, della liberazione.
Questa terra solcata ancora nelle trazzere dalle ruote del carro ci appare allora in lontananza e dall’alto come disseminata di segni.
In questa disseminazione, che è anche o soprattutto giuoco, invenzione dell’arte, della fantasia, Liga scopre una sua sottile vena di malinconia.
La poesia, a volte anche disperata, che ne scaturisce, mette a nudo, allo scoperto il sentimento del mondo incontaminato del tempo della nostra infanzia e della felicità irrimediabilmente perduta, nonché un sentimento religioso, che nella sua aspirazione alla salvezza, non evade, non fugge il mondo bensì lo ama incondizionatamente, sperimentandolo financo nella sofferenza e nella fatica del lavoro.
La pittura di Liga è dunque questo rispecchiamento, questo ritrovare un’immagine del cielo nella o attraverso la terra, attraverso il suo fuoco interno, la sua energia creatrice che ci alimenta materialmente e spiritualmente, attraverso dunque il sentimento proprio di una civiltà, oggi, quasi scomparsa, quella contadina, espressa pittoricamente nelle tracce di solchi, limiti, confini di quelle nostre contrade, che ne indicano ancora la superstite coltivazione disegnata in un ordito, in una frammentazione a volte di stile quasi divisionista.
In questo giuoco della frammentazione e disseminazione dei segni, il paesaggio della contrada è colorato da pennellate più o meno dense, che intessono sulla superficie della tela una rete, un ricamo dal sorprendente disegno astratto.
È in questa rete della poesia che il nostro sguardo viene facilmente catturato, senza tuttavia riuscire a penetrare a pieno il senso di quello spessore, di quel muro di materia cromatica, di quella terra, da cui sembra sprigionarsi, come combustibile, – seguendo qui il nostro artista la più autentica lezione guttusiana di una pittura “a sangue caldo”- l’energia vitale, il calore di una fiamma in un perenne focolare acceso.
Anche per Liga come per Guttuso “la pittura non può più essere formalistica, la pittura deve significare qualcosa”, ma questo ritorno paradossalmente avanguardistico, “concettuale ” del senso contro il formalismo può essere dato solo da una particolare attenzione nei riguardi della nostra tradizione pittorica.
Nella pittura di Liga luce e colore ma anche senso e simbolo trovano la loro epifania non nella semplice rappresentazione figurativa del reale bensì, come in un procedimento alchemico, in una sorta di estrazione dell’oro e della luce da una coltivazione travagliata delle terre proprio in quel campo della nostra osservazione, costituito dalla tela di un quadro.

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